venerdì 30 marzo 2012

la tuta del Pepe, vermell i negra...




28 marzo 2012, ore 18: il Quim mi aspetta davanti a San Siro nel parcheggio riservato ai tifosi blaugrana, ci siamo conosciuti un anno fa a Sant Joan de Vilamajor, ameno villaggio di collina a mezz’ora da Barcellona. Ero lì per partecipare al Granollers Jazz Festival, e il mio pard catalano Joan Sanmarti, fine chitarrista e arrangiatore del concerto che abbiamo tenuto insieme, mi portava ogni mattina nel suo bar, prima di andare alle prove.
Colazione e futbol, le curiosità saporite delle nostre fedi calcistiche, una consuetudine appena accennata che apriva la giornata col sorriso. Quello di Quim stringe ad ogni passo, contagioso e rauco. A Milano si è portato suo figlio, suo fratello e alcuni amici. Scambio di gagliardetti: quello blaugrana è una birra gelata dal frigo-camper, e una spilla con lo stemma del club catalano. Quello rossonero è una copia di Fedeli a San Siro con dedica, e due bottiglie di “tinto”. Amb l’amistad, uniti contro il profeta di Setubal, che a loro sta sulle balle tam quam. Bene.
Si entra nel tempio, terzo anello riservato alle tifoserie ospiti, con tanto di rete protettiva per impedire il lancio di oggetti. Pare che sia successo un paio di volte, qualche anno fa, così l’uefa ha imposto l’ennesimo muro per limitare i danni del becero che avanza. Poco male, la festa per el partidon è un’altra storia, cuor contento ciel l’aiuta.
Gli amici catalani non si aspettavano uno stadio così bello; San Siro, nonostante la somma di anelli e coperture, resta un posto molto buono per vedere il calcio. Ci fosse anche un terreno all’altezza sarebbe perfetto, ma tant’è. Quando ero un ragazzo c’era “la porta del freddo”, con l’area che ghiacciava, adesso ci sono alcune zone di campo dove le zolle crollano, manco fosse la tana suprema di un esercito di talpe. Mica si può andare avanti così, partite del genere meritano un bigliardo, ma senza le buche.
Il Milan parte bene e potrebbe segnare dopo 2’, se non fosse che Robinho si divora la palla-gol che qualsiasi giocatore sognerebbe di avere tra i piedi. Era solo da appoggiare in rete, aveva perfino il tempo per stoppare e mirare con calma, invece sparacchia una specie di rinvio, manco fosse Puyol, che ringrazia. Poco dopo Ibra, imbeccato da una preziosità del Clarence (il migliore in campo per un’ora, prima di alzare bandiera bianca per raggiunti limiti di fiato), se ne divora un’altra.
Se ai fenomeni regali due bonus del genere non hai molta speranza di uscire vivo. Il Barça cresce, comincia a dipanare il suo mantra, crea un paio di palle-gol, vedo la panna che comincia a montare.
Ci sarebbe anche un rigore su Sanchez, non limpidissimo ma che si poteva dare. Il Milan soffre e cerca di ripartire, però gioca in dieci, Robinho passeggia amabilmente per il campo e non tiene una palla che è una. E’ una partita di attenzione tattica esasperata, non ultraspettacolare come si attendeva, ma godibilissima e ben giocata da entrambe le squadre. Il gol che avrebbe sparigliato e mosso le acque non arriva, il centrocampo del Barça cerca in tutti i modi di ipnotizzare il Milan, che però riesce a tenere alta la concentrazione, nonostante le assenze e i cerotti. Mi pare che quest’anno se c’è una squadra che il Barcellona patisce, questa è il Milan, come già dimostrato.
Nell’intervallo cerco di andare in bagno, ma desisto e resisto. Ci sono tipo 150 persone che fanno la fila, scopro che per tutto quel settore (migliaia di posti) ci sono la bellezza di quattro toilettes. Complimenti vivissimi al direttore. In compenso per tutto l’intervallo parte la musica della Champions a palla, roba da inquinamento acustico punibile con l’arresto, il volume è insopportabile, il rimbombo nel catino è perfino peggio. Impossibile telefonare, molto complicato scambiare due parole col vicino. Per un quarto d’ora San Siro si trasforma in un incubo sonoro, ma l’assuefazione da centro commerciale rende bevibile anche questa sbobba, ormai si ingurgita tutto, anche la sigla della Champions in loop per un quarto d’ora.
Prego che entri il Faraone per Robinho e all’inizio della ripresa c’è il cambio, si gioca undici contro undici, finalmente. Il Milan non cambia partita e non cede un’oncia di attenzione sulle distanze, il Barca cerca di lanciare le sue micidiali esche per attirare negli spazi la retroguardia rossonera e colpire, ma stasera – nonostante nel secondo tempo giochino Mesbah, Bonera, Mexes e Antonini (non esattamente una retroguardia che resterà nella storia del calcio) – la fase difensiva è registrata a dovere, e il Barcellona fa più fatica a farsi vedere dalle parti di Abbiati, comunque decisivo in almeno tre occasioni. Gran partita di Ambrosini (l’avevo battezzato al tramonto definitivo, mea culpa) e di Nocerino.
El Sharawi gioca col piglio del titolare navigato e Allegri – mi dico – deve averlo notato una volta per tutte. Speremm.
Ibra conferma la striscia negativa da big match, evidentemente in queste partite la tensione lo divora; corre e si impegna, ma quasi sempre fa scelte sbagliate e ogni tanto gli sale una specie di intermittenza indolente, si fa pescare in fuorigioco come un esordiente. Và a dà via i ciapp, Ibra, se al Camp Nou vogliamo giocarcela mi devi scendere in campo tutto intero, mica a pezzi. Altrimenti mi tocca sperare che al tuo posto ci sia il Maxi, la nostra “galina de oro”, uno di quei centravanti che con i suoi movimenti dà senso alla manovra d’attacco. Una cosa che mi rimanda a Crespo, o a Cruz. Tutti argentini, sarà un caso.
Forse il Milan avrebbe potuto osare di più, ma per farlo contro la squadra più forte del mondo avrebbe dovuto ricevere coraggio da un attacco meno svagato. Risultato giusto, qualificazione aperta. Il 25% che davo al Milan prima di questa partita resta intatto, in tre partite al Barcellona abbiamo segnato quattro gol. Martedì prossimo, se il Milan riuscirà a ripetere lo stesso match in fase difensiva, potrebbe bastarne uno.
Andiamo a casa, che la partita è finita ? No. Dopo avere salutato il Quim, un nome che mi suona vagamente salgariano ma che è una variante di Joaquim, mi tocca aspettare quasi un’ora prima di uscire dallo stadio, scortato dalla polizia insieme a qualche migliaio di tifosi del Barcellona. L’unico quarto di finale ad essere ancora in bilico è questo, e per me – da cuore rossonero, anzi, vermell i negre – è una bella soddisfazione.
Raggiungo trafelato il parcheggio con la testa nel frigo di casa, fame da avanzi della cena, da dopopartita. Un signore anziano mi fa toc-toc sul finestrino: mi scusi, non è che può darmi uno strappo in Piazzale Lotto ? Prego.
Grazie, che Dio la benedica.
Via, per così poco?
Ma si vede che è stanco, gli risparmio un chilometro che vale doppio. Prima che scenda gli dico “che bella questa tuta del Milan”.
“Bravo lei che l’ha notata, ma lo sa di chi era questa tuta ? Era di Schiaffino, del grande Pepe.”
Buonanotte, vell cor fort vermell i negre. C.S.


dal blog "quasirete" della Gazzetta dello Sport - link:
http://quasirete.gazzetta.it/2012/03/30/la-tuta-del-pepe-vermell-i-negra/

giovedì 29 marzo 2012


Saranno passati sei anni (facile, sui libri ci scrivo data e luogo d’acquisto): avevo un appuntamento a Roma ed ero in anticipo, il tempo di entrare in una piccola libreria di Parioli e notare una copertina col guantone da boxe, il destro che si schianta sul muso contratto del pugile. Sono un fan del racconto, combatto una piccola guerra individuale contro la vulgata che – soprattutto in Italia, nazione di poeti assai più che di romanzieri – relega questa nobile forma d’arte letteraria a una specie di jattura perché – si dice - “la gente” vuole leggere romanzi.  Io non so cosa vuole leggere la gente, quello che invece so bene è che un certo numero di libri che mi porto nel cuore sono riconducibili alla forma del racconto.   Come nel caso di Ho dato l’anima. Storie di uomini e di sport di Giorgio Terruzzi, che da quel tardo pomeriggio romano ha conquistato il primo ripiano in basso della libreria che ho accanto al letto, nel posto che chiamo “l’ormeggio”. Lì ci vanno a finire quei libri che ogni tanto mi fa bene rileggere, una specie di porto sicuro che torna buono nelle notti complicate, quando il sonno stenta e la lettura del libro in corso pure. Nell’”ormeggio” non hanno residenza solo capolavori riconosciuti, la selezione è un affare di gusto ragionato in immediatezza. Anzi, a guardar bene, di anima. Nel titolo di questo libro non poteva starci parola migliore perché il soffio, l’aura, il vento che attraversano queste pagine sono piccoli alisei sulla mia personalissima carta nautica. Giorgio Terruzzi pennella diciotto ritratti d’autore in chiaroscuro, dove i colori sono quelli di chi ha visto bene, nobilitati da una prosa che scavalca il tempo e restituisce il valore dell’istantanea.
Da Schumacher a Valentino Rossi, passando per Senna e Fangio. E poi Walter Chiari e Beppe Viola, Monzon e Rivera, McEnroe e Bonatti, Paolo Conte e Pantani. Fino a Il vento dentro, dedicato a Massimiliano Capuzzoni, il giovane amico rugbista scomparso a soli 26 anni. In ciascuno di questi ritratti c’è l’onestà visionaria per le cose che abbiamo scoperto di amare, e tante parole che fanno volare. C.S.

dal sito di Panorama - link: http://blog.panorama.it/libri/2012/03/20/ho-dato-lanima-storie-di-uomini-e-di-sport-di-giorgio-terruzzi/

Inter: se finisce un ciclo con chi si ricomincia...a pedalare ?


Quando un sogno finisce, in genere il ritorno alla realtà è duro. Ma bisogna pur ammettere che la realtà dell’Inter degli ultimi mesi era da incubo: vissuto ad occhi aperti oppure chiusi, poco cambiava. In totale, però, nella sua parte più bella si è trattato di un misto di sensazioni: sogno-dormiveglia-realtà (concreta) che in tutto sono durate ben sette anni, mica noccioline. E se sette è il numero perfetto nella cabala (e non solo) per identificare l’infinito, qualche ragione per sperare che la ruota ricominci a girare verso l’alto dallo stesso punto basso in cui è piombata c’è, eccome.
Fine di un ciclo, anche se qui si parla di calcio e non di due ruote, quindi: fine di un calcio, quello dell’Inter iniziato con Mancini e in parabola discendente dall’addio di Mourinho riuscendo comunque a vivacchiare un altro paio d’anni (la battutaccia sul ciclo-calcio è dovuta al perdurante stordimento della sveglia che ci ha dato il Marsiglia nella nostra ultima uscita sulla scena europea, quindi me la si faccia passare).Fine di un ciclo e di un calcio, e arrivo al capolinea dove qualcuno deve fatalmente scendere, e per sempre, dal nostro bel torpedone nerazzurro. Alcune delle conseguenti citazioni che sto per fare mi procurano dolori forti al miocardio (e sono sicuro: non solo al mio, di cardio), ma credo che al via della prossima corsa non possa proprio esserci più nessun sedile riservato per Cordoba (ahi!), Stankovich (doppio ahi!), Chivu (fitta meno intensa), Zarate, Forlan, Palombo (per questi ultimi nemmeno un piccolo vibrare, come poco o pochissimo me lo hanno procurato vestendo impropriamente la mia maglia). Se si riesce a piazzare più che bene Sneijder, via anche lui.
Biglietto di viaggio da confermare per Ranocchia (ma perché voglio dare fiducia ai giovani come vedremo anche più avanti, pur se lui me l’ha quasi del tutto fatta perdere), Samuel (le sue ultime inutili scivolate ad impedire gol invece realizzati hanno fatto scricchiolare l’adorazione che gli riservavo), Maicon (che mi sa adesso non vuole quasi più nessuno), Nagatomo (ma era proprio necessario scambiarlo con Santon?).
Dietro si tengono Julio Cesar (che un anno così brutto non potrà comunque ripeterlo, e di meglio in giro molto non c’è) e Lucio che a 34 suonati non ha mercato e può fare da tutore ai centrali del futuro: Ranocchia (se finalmente convince) al quale gli si affianca Caldirola (un campione, predestinato) di ritorno dall’Olanda, che è nostro e là in prestito. In mezzo, non vedo – checché se ne dica - come si possa fare a meno del Capitano almeno per un altro anno (qui il discorso sull’età non fa testo, altrimenti sarebbe già in pensione da un lustro, invece corre ancora quasi sempre come un treno e ragiona come se avesse un radar incorporato), così come di Cambiasso, che lo si voleva assolutamente in panchina e quando è entrato nelle ultime due partite a 15 dalla fine abbiamo segnato quattro gol, due per volta: siamo sicuri che sia davvero finito?
Visto che si parla in maniera ormai franca e presidenziale di rifondazione dando spazio ai giovani, avanti allora con fiducia (e regalando ancora pazienza) a Obi, Poli e Faraoni, addirittura Alvarez e magari anche Krin se non abbiamo fatto la stupidata di cederlo del tutto al Bologna.
Dettaglio contrattuale che mi auguro (ma mi sa proprio che non è così) possa in qualche modo valere anche per Destro, che faceva sfracelli nella Primavera e promette più che bene anche adesso al Siena. Chissà perché quando convincono, spesso i giovani li vendiamo e andiamo a prenderne altri che invece ci lasciano basiti (lo scambio, appunto, Destro-Ranocchia con il Genoa, val bene l’esempio).
In più, da quando Coutinho ha smesso di respirare l’aria di Appiano per andare in Spagna all’Espanyiol pare “tornato” ad essere un altro, cioè un campione, quello che si diceva essere da bambino (acquistato in tempo di svezzamento e da noi portato via dal Brasile) prima di arrivare a giocare con i grandi e deluderci in prima squadra: perché non proviamo a farlo tornare dal prestito e a vedere se adesso gira giusto finalmente anche da noi, magari portandoci qualche bombola d’aria da Barcellona?
Davanti fiducia a Pazzini e anche a Milito: pur sembrando l’argentino la copia talvolta malamente invecchiata di quello che era un Principe assoluto con Mourinho, quando si sveglia (e negli ultimi tempi lo ha fatto, senza nemmeno troppo sbadigliare) c’è sempre, e un po’ di transizione se la può fare con onore, direi.
Ai due, va affiancato almeno un altro, da scegliere bene e contando sulla sua possibile durata nel tempo, quindi un giovane di sicuro avvenire. Tutto questo, naturalmente, se cambia anche chi si occupa di mercato, e questo vuol dire una cosa sola: via Branca e che torni Oriali immantinente.
Aggiungo anche che almeno per un po’ non toccherei l’allenatore, e dico addirittura di più: facciamo un bel contratto blindato (e che lo sia da ambo le parti) a Ranieri, e lasciamolo lavorare (almeno) per tre anni: non diventerà un longevo da panchina nerazzurra come Ferguson lo è per il Manchester (anche se son cose che prima o poi si dovrebbero sperare succedano anche da noi, queste), ma sono convinto che lui non sia solo un aggiustatore in corsa (come in fondo si dice per depotenziarlo), ma anche un buon creatore e assemblatore di squadra, se addirittura riesce ad averla in mano dall’inizio stagione.
Diamogli tempo, invece di ricominciare con l’assurdo tourbillon della panchina (che non fa altro che creare confusione a tutti, dai giocatori ai tifosi) e magari ne vien fuori qualcosa di inaspettato. Si tratterebbe di poter contare su una certezza: programmazione a media e lunga scadenza, e lasciamo la fretta degli ultimi anni all’album dei ricordi da cancellare.
Un sogno? Ma no, ho già detto che mi sono svegliato; malamente, ma l’ho fatto. Sperando che in futuro, fra l’altro, non debba più vivere momenti di sonno agitato come quelli che ho passato nelle due ultime stagioni, e parlo di quelle ciclo-calcistiche, naturalmente. Quella che da subito ci aspetta è una faticaccia tutta in salita (della classifica) da gran premio della montagna (tanto per tornare alla bicicletta) che al momento non ci fa nemmeno quasi intravedere il traguardo della partecipazione all’Uefa League l’anno prossimo.
Già questo basta e avanza per immaginare altri incubi in arrivo, altro che rinascita immediata! 
T.M.
dal sito di Panorama - link: http://blog.panorama.it/libri/2012/03/16/inter-se-finisce-un-ciclo-con-chi-si-ricomincia-a-pedalare/

lunedì 16 gennaio 2012

abbracciare Serena

Il titolo potrebbe evocare pellicole tipo “Fotografando Patrizia”, ma la Serena (una ragazzina che ai tempi ci faceva andare fuori di matto per via degli shorts attillatissimi che usava indossare) non c’entra nulla.
Una delle passioni che hanno accompagnato il tempo della mia adolescenza è stata la fotografia.
Giravo con una Minolta e deliravo per il bianco e nero sgranato. Tra il 1974 e il 1980 ho consumato qualche chilometro di Ilford HP5, la pellicola che si adattava alle mie umili mire artistiche. Stampavo in casa, con un piccolo ingranditore Durst.
Chiuso nello sgabuzzino, a temperature tropicali, prima di passare all’asciugatura delle mie opere sui muri piastrellati del bagno. Mia madre, la mattina dopo, intonava le stesse solfe: “Claudio, adesso porta via tutta questa roba da qui … !”
Con l’eco della nonna: “Eh si Claudio, la tua mama la g’ha resùn !”.
En passant va detto che la mia nonnina chiamava la fidanzata del Marelli “Sciura Tiziano”, sublimando il gergo della sua squisita milanesità insieme alla sfera sentimentale del mio amico interista.
Già all’inizio degli Ottanta le nuvolette della passione andavano diradando. Per tentare il colpo di coda avevo affiancato alla Minolta una Canon fiammante, la prima col motore incorporato, un giocattolo che, ai tempi, sembrava fantascienza.
Tenevi schiacciato il pulsante dello scatto e ta-ta-ta-ta-tac la camera ti sparava quante foto volevi in una prodigiosa rullata, ideale per la foto sportiva ma da usare con parsimonia, con un rullino da 36 pose bastavano tre raffiche e avevi esaurito le scorte…
Estate del 1983, 2 Luglio per la precisione. Quello che di lì a poco sarebbe diventato il patron del Milan si mette in testa di organizzare un torneo serale con le squadre di Milano, la Juve e, a turno, un paio di grandi compagini sudamericane: il Mundialito. Quell’anno giunsero a Milano il Flamengo e il Penarol.
Il Marelli, che abitava una ventina di metri sotto il mio appartamento, una sera mi incrocia davanti al portone: Claudietto (ero già sui 90 chili prima della colazione già evacuato, sic, ma lui ancora adesso mi chiama vezzeggiando…) ti piacerebbe vedere il derby del Mundialito a bordo-campo, insieme ai fotografi ufficiali ?
Dico, Marelli, te se matt, e me lo chiedi ? Cosa vuoi che ti dica, dimmi dove e quando e sono già lì. Non ricordo la ragione per cui il mio amico serpente avesse accesso a certe possibilità, sicuramente qualcosa che c’entrava con la sua professione di giornalista, la fibrillazione per l’evento superava la curiosità.
Fatto sta che seguo le sue direttive e mi presento davanti ai cancelli di San Siro con largo anticipo, e la macchina fotografica a tracolla, lui mi appioppa una pettorina dove c’è scritto “STAMPA” e mi fa entrare sul manto erboso dove di lì a poco avrebbe avuto inizio il derby.
Raccomandazione, di rito, ma ci stava: Claudietto, stai schiscio, la categoria è quella dei fotografi professionisti, tu stai lì buono, fai le tue foto, goditi la partita, non ti scoprire troppo, se qualcuno ti chiede di che giornale sei stai sul vago, tipo “free lance”, mi raccomando non farmi fare brutte figure.
Bene. A 23 anni per la prima (e unica) volta cammino sul manto erboso del Tempio (Merci, Marelì).
Mi piazzo dietro la rete di Zenga, sperando di poterlo apprezzare nel gesto del portiere che, incolpevole, si china a raccogliere i palloni della sconfitta. Per onor di cronaca va detto che il Milan era reduce dal Purgatorio, ma già schierava tre giocatori che avrebbero segnato un’epoca scintillante nella squadra che oggi è considerata “la più forte di tutti i tempi”:
Nuciari – Tassotti – Evani – Pasinato – Canuti – Baresi II – Icardi – Romano – Serena – Verza – Incocciati.
L’Inter, sulla carta certamente più forte:
Zenga – Bergomi – Ferri – Baresi I – Collovati – Bini – Van Der Giip – Sabato – Altobelli – Beccalossi – Marini.
L’anno prima avevamo ceduto Collovati ai bauscia, e in cambio erano arrivati “Vapore” Pasinato, Canuti e Serena.
Tempi bui ma pieni di voglia.
Note sparse: Nuciari è da tempo il preparatore dei portieri dell’Inter. Ho avuto un debole per Vinicio Verza. Non mi ricordo di Van Der Giip.
Il Milan è in serata, scatto pochissime foto e guardo la partita con avidità. Impressiona vedere da vicino il livello atletico di certi giocatori, un passaggio rasoterra di 20 metri è un tiro in porta. Nei cross l’area è un’accolita di energumeni che se le suonano di santa ragione.
Ed è proprio da un cross che vedo spuntare la zazzera bionda di Aldo Serena, che piazza la zuccata vincente dell’1 a 0.
Esulto implodendo, ligio alle raccomandazioni del Marelli. L’Inter preme, cerca di recuperare lo svantaggio, ma il Milan è in partita.
Secondo tempo, cambio di campo. Anche per me, che per un paio d’ore vivo alle spalle di Walter Zenga.
Inizia la ripresa e Altobelli pareggia, ma non mi ricordo come, strano vero ?
Non passano cinque minuti che davanti a me, sul margine destro dell’area nerazzurra vedo ciondolare Vinicio Verza (non saprei dire, non mi ricordo, ma passatemi la libidine). Serena è sul versante opposto del campo, finta di andare al centro e si allarga. Vinicio lo vede e pennella un cross lungo che piove sul suo piede sinistro. Io sono sulla diagonale, appoggiato ai cartelloni pubblicitari. Mi dico: adesso stoppa a seguire e mi si presenta davanti a Deltaplano Zenga, l’Aldone. Mi sbaglio.
Il Nostro si blocca di colpo e aspetta il cioccolatino, carica il sinistro (che è il suo piede) con tutta la forza che ha.
L’impatto è al bacio, il siluro parte dritto e devastante.
Zenga accenna al volo quando ormai lo schianto è cosa fatta. Sette pieno, imprendibile. Un golasso, come oggi direbbe Josè Altafini (lui che nel Milan, e non solo, ne ha fatti tanti).
Ma chi c’è ad abbracciare Serena sul prato del Tempio ? C’è Baresi, c’è Evani, e Verza, Romano … e poi … ?
E poi ci sono io … eh eh eh … ma dai ? Ma si, sun proppi mì, con la macchina fotografica che mi salta sul petto, in salopette rossa e “all stars” bianche (sono un ex-cestista).
Sento delle urla dietro di me, non mi volto, mi disperdo nella confusione dello stadio appena esploso, il cuore batte forte, quasi certamente ho un’espressione che vagola in una fissità un po’ ebete, la trance è evidente, corro verso il fuoco.
Serena mi abbraccia e mi guarda stranito, è un attimo, gli grido “grande Aldo, che gol, che gol, che gol !!!”.
Sono nell’area dell’Inter, in piedi, da solo, a pochi metri da Zenga. I giocatori del Milan tornano a centrocampo (la partita la vinceremo noi). In un baleno di coscienza alzo lo sguardo e corricchio verso il mio posticino, dietro la porta. Mi vengono incontro due fotografi che mi prendono per le braccia e mi trascinano via: “Ma sei impazzito ? Ma scusa, tu chi sei ? Ma lo sai che ci puoi rovinare ?”
Mi piove addosso una gragnuola di insulti, mi rimettono a sedere. Non li sento, godo troppo (la doppietta dell’ex …) e mi scosto in fondo alla fila, muto. Penso a Tiziano, chissà se mi ha visto … Ma sono andato proprio in campo ad abbracciare Serena ? Si. Mi sa proprio di si.
A fine partita tutti i fotografi (almeno una decina) mi guardano con ostilità. Uno di loro mi fa, duro: “non farti più vedere”.
Olamadona, penso io, cos’ho fatto, ho abbracciato un essere umano con la maglia rossonera che mi ha dato la gioia di segnare un gol da cineteca che ci ha regalato la vittoria contro i bauscia. Dovrebbero essere tutti contenti, no ?
Incrocio Tiziano, che ha visto la partita dietro la porta del Milan: Sanfi, ma sei scemo ? E ride con un matto: “Ma tu sei proprio fuori …”. Io lo guardo: ”ma almeno hai visto che gol, eh ? L’hai visto ? Due pappine due, caro Marelli, a-ca-sa !”.
A casa, appunto. che sarà stata mezzanotte. Accendo la tele e guardo il servizio su Italia Uno. Scorrono le azioni, i gol … vuoi vedere che … eh già: al gol di Serena mi vedo caracollare con la mia corsa piuttosto peculiare, disemm inscì (tipo quella dei cani al trotto, di traverso) che taglio l’area e piazzo il braccio sul collo dell’Aldone. In coda si vedono i fotografi che saltano in piedi per cercare di fermarmi.
Abbracciare Serena. Però – solo per una volta – l’Aldo. C.S.


p.s. - Per la serie “vita vera” potete visitare il seguente link: http://www.youtube.com/watch?v=3rPgpMe983U e al minuto 7:45, per un paio di secondi, vedrete un tipo in salopette rossa che sta seduto alla destra della porta difesa da Zenga. Al gol di Serena (su cross di Pasinato e non di Verza, ma il bianchetto l’ho buttato via) il tipo in questione, che poi sarei io, si alza esultando e sta per entrare in area. Purtroppo la ripresa si interrompe per lasciare spazio ai replay. Però si vede che Serena, in primo piano mentre esulta, si volta verso la porta e non verso i meravigliosi compagni di casacca. Sta guardando me, che gli vado incontro di corsa. Dopo qualche secondo nell’abbraccio ci sono anch’io, anche se non si vede. Grazie per l’applauso, dovere.

dal sito di Panorama - link: http://blog.panorama.it/libri/2012/01/13/abbracciare-serena-alle-fine-del-derby/#more-17520

Vita da derby, in nero e azzurro

Non vado nemmeno a cercare sugli annali anche perché non so bene che anno cercare, e poi i derby amichevoli magari neanche li mettono. So soltanto che ero piccolo, piccolissimo, e andavo con mio padre a vedere quello che sarebbe stato il primo incontro stracittadino della mia vita. Era la fine dell’estate - sono sicuro: faceva caldo anche se era sera fatta - e credo che agli occhi di un bambino di 4, 5 o 6 anni (stiamo quindi parlando più o meno di mezzo secolo fa!) niente poteva apparire più bello che lo spalancarsi di quel San Siro illuminato per la “notturna”: era proprio così che chiamavano la partita i grandi che mi tenevano per mano
già questo - per me - sapeva di trasgressivo e di molto adulto.
Ho pochissime immagini di quell’evento straordinario, e quasi non voglio nemmeno cercarne delle altre. Mi ricordo solo che ero in alto alto e in curva (per chi capisce di San Siro: quella che è adesso la preferita dai tifosi interisti) e che ero molto nervoso nell’attesa dell’ingresso delle squadre in campo, mi ricordo i cori e i colori e anche che il Milan vinse 4 a 0, che noi facemmo solo un tiro in porta e su punizione, che nell’Inter mi pare giocasse (ma non ne sono sicuro) un cileno che si chiamava Toro e che alla fine arrivammo faticosamente alla macchina (Fiat 850, color acqua marina, l’auto di famiglia appena comprata, rate infinite: da qualcuno devo aver pur preso.
Come conseguenza di quella prima uscita ufficiale da tifoso nerazzurro quasi ancora in fasce il mio papà mi asciugò le copiosissime lacrime e mi consolò dicendo: “Vedrai che il prossimo andrà meglio, vinceremo noi”. Invece non fu così e non lo fu proprio mai, in sua compagnia. Per capirci meglio: le stracittadine viste ancora da quella volta insieme non solo le perdemmo sempre - con 3, 2, 1 gol di scarto - ma non riuscimmo nemmeno mai a pareggiare, né a segnare un gol, nemmeno uno che fosse uno! Nonostante questo ruolino di marcia da accoppiata familiare assolutamente disastroso il genitore non aveva il coraggio di dirmi che forse era meglio, per scaramanzia, non si vedesse più un Inter-Milan (o viceversa) insieme, anche perché spiegare ad un bambino che cosa si intenda nel tirare in ballo la scaramanzia non è per niente facile e nemmeno educativo dal punto di vista delle certezze e dei fatalismi puri e semplici.
Ma a mio padre venne in soccorso la varicella, e anche questo fu episodio epocale. Era domenica 22 marzo 1964 (avevo quindi poco meno di nove anni), si disputava il derby di ritorno del campionato di quella stagione, e io mi ritrovai nel giro di poche ore pieno di pustole dalla testa ai piedi. In verità mi sembrava strano che il genitore non fosse dispiaciuto per la defezione imminente, ma pensai che prima o poi nella vita mi doveva succedere di saltare un Inter-Milan insieme: in fondo ne avevamo davanti - pensavo, ingenuo - molti altri per gli anni a venire.
Quel giorno, naturalmente, pur se a letto e ridotto ad uno straccio, avevo la radiolina incollata all’orecchio da molto prima del collegamento previsto; quando questo arrivò il transistor mi rimandò la notizia che il risultato era fermo sullo 0 a 0. Meno male, pensai: almeno stavolta non si perde. Invece, dopo un po’ dall’inizio della ripresa segnò Altafini per il Milan, e a me tornò il solito-malissimo-di-stomaco-da-sconfitta-di-derby, una roba che ormai avevo imparato a riconoscere, un dolore sordo che ti prende all’inizio piano poi diventa sempre più forte e alla fine si trasforma in spossatezza generale con nessuna annessa voglia di alzarsi dal letto, ad esempio (e soprattutto) per andare a scuola il giorno dopo. Del resto, con l’aggiunta di tutte le magagne e le insopportazioni dell’età adulta e dell’epopea nerazzurra nefasta (durata anni e anni, anche se forse ora definitivamente alle spalle), mi succede(rebbe) così anche oggi. Comunque, contro tutte le previsioni dovute alle esperienze fino a quel momento maturate, quella volta la palla non fece in tempo a tornare a centro campo che la prende Mariolino Corso, scarta almeno sei rossoneri e la deposita in fondo alla rete dopo aver scavalcato anche il portiere. La partita poi finisce, così, 1 a 1. Semplicemente, quando mio padre torna a casa mi dice: “Dopo un sacco di tempo non andiamo insieme al derby da anni e l’Inter riesce a fare un gol! E’ logico che da adesso ognuno va a San Siro per conto suo”. Inutile sarebbe confermare che quella sorta di macumba al contrario ha funzionato, perché è stato proprio andandoci senza di lui che ho cominciato a non veder perdere e basta la mia squadra: prima pareggi (anche a reti inviolate), poi magari anche qualche sconfitta ma anche tante, tantissime vittorie, alcune indimenticabili. Unica eccezione, buonissima per confermare la regola, accadrà l’8 novembre 1970, e mi è stato facile ritrovare il giorno esatto: la sera prima a Roma Benvenuti prese una prima tal suonata da Monzon, che il doppio evento negativo mi è rimasto ben fissato nella memoria. In quella data io e il genitore provammo a vedere se il sortilegio fosse mai caduto in prescrizione anche perché obbligati di nuovo a viaggiare in coppia per una stracittadina causa visita di un quasi-parente venuto da lontano al quale mica potevamo raccontargli della nostra disgrazia legata ai derby: in fondo eravamo pur sempre milanesi illuminati! Naturalmente finì come doveva finire, facendoci tornare immantinente alle sane reciproche distanze per l’occasione, convinti da un secco 3 a 0 per il Milan, anche con onta della rete finale segnata dall’odiato Rivera (prima Biasiolo e Villa), e noi costretti a giocare con improponibili scarponi del calibro (ahinoi!) di Cella e Fabbian: ricordo bene solo loro, gli altri li ho per fortuna rimossi. Unica consolazione, ma non ne sono sicuro: Lido Vieri che si infortuna quasi subito e conseguente debutto in porta di un giovanissimo Ivano Bordon che sembra palesarsi da subito portiere di ottima fattura, anche se motivi per ricredersi negli anni ce ne saranno a iosa. Per amore di storia nerazzurra va detto che la mia squadra dopo quella disfatta cambiò marcia, allenatore (arrivò un quasi sconosciuto Invernizzi, subito ribattezzato Robiola: ah, la creatività lombarda!), un onest’uomo di allenatore casareccio capace di ridisegnare in un niente la squadra, compilare una tabella-scudetto che farà epoca e proprio nel derby di ritorno (non mancherò certo l’appuntamento andandoci, of course, da solo) in solo mezz’ora ci penseranno Corso e Mazzola a stroncare velleità stracittadine e possibile tricolore di rincorsa (arrancavano dietro, ma neanche di tanto) degli insopportabilissimi cugini.
Riprendendo solo con i bei ricordi, nei derby degli anni a venire potrebbe anche valere per tutti un 5 a 1, con tre gol nei primi dieci minuti (ad essere precisi: nel periodo compreso fra il 5° e il 9° pt), e mi ricordo che in porta c’era Pizzaballa in sostituzione di Albertosi infortunato e che prima della partita aveva detto essere pur vero che da tanto tempo non giocava, ma avrebbe fatto di tutto per non far rimpiangere il portiere titolare. Gli arrivarono in sequenza, nel sacco, sberle da Oriali, Boninsegna due volte (la prima con deviazione di Sabadini), poi accorciò Chiarugi, alla fine del primo tempo allungò Mazzola e nella ripresa - giocata da noi come in allenamento, e impreziosita da tanti “olè” che facevano sembrare San Siro un catino da corrida - arrotondò Mariani. Dico tutto così, quasi a braccio, e non sono mica cazzate da ricordare (ho solo controllato la sequenza delle reti): son passati quasi quarant’anni, visto che era il marzo del ’74! Ufficialmente giocavamo in trasferta, e non dimenticherò mai la faccia del Flavio Belotti (milanista purosangue e campione niguardese assoluto di rutto libero) con me allo stadio, che dopo solo una manciata di minuti dal fischio d’inizio era rimasto senza parole e tale rimasto ostinatamente fino alla fine nonostante gli dessi continuamente di gomito; come unica consolazione, sulla via del ritorno, si prenderà la soddisfazione di vedere triturata dall’elica del suo vespone il mio bandierone nerazzurro nell’atto del mio sventolio reiterato, mentre attraversavamo il cavalcavia Bacula verso il ponte della Ghisolfa.
Delle tante altre stracittadine ricordo anche una volta - per la penuria di dané - l’ingresso a cancelli aperti, verso la fine della gara (in genere, a quello che adesso chiamano Meazza ma che per noi resta sempre e solo San Siro, il “tutti dentro”, ieri come oggi, avviene circa al 30° st), giusto in tempo per vedere uno storico gol di polpaccio di Bigon su respinta sfortunata di Burgnich che fissava il risultato sul 3 a 2 per il Milan (stiamo parlando del novembre ’71).
Arrivando a questo – calcisticamente parlando - splendido nuovo millennio ho avuto la ventura, fra le tante altre cose belle che mi ha riservato - come l’amore assoluto (a assolutamente ricambiato) per Cambiasso, la forte impressione (quasi certezza, invero) di essere almeno lontano parente di Xavier-mio-capitano, e la marcata sensazione che se avessi continuato a calcare i campi di gioco oltre i sedici anni senz’altro qualcosa più di Quaresma sarei riuscito a combinare - di regalarmi alcuni momenti epocali per la mia personale storia nerazzurra, e parlando sempre di derby mi piace citare quello legato ad un grande e unico allenatore come Mourinho, capacissimo creatore di una squadra di miei eroi pressoché perfetta, in grado (fra le altre cose) di infliggere ai facenti parte dell’altra sponda calcistica meneghina (tutti: squadra e tifosi) una doppietta esaltante nelle due gare della Madonnina disputatesi nell’anno di grazia calcistica 2009-10: addirittura un 4 a 0 “in trasferta” all’andata - una squadra sola in campo, e smetto qui per non infierire e dilungarmi inutilmente, che le parole non servono - e un 2 a 0 al ritorno dove, se anche le squadre in campo erano due, bisogna sottolineare che la mia amata compagine si presentava a ranghi ridotti già prima di incominciare la gara per poi rimanere quasi subito in dieci e, verso la fine, addirittura in nove. Anche con due espulsi e un rigore contro - parato! - abbiamo dato lezione di gioco e di compattezza tale da regalarmi sensazioni di assoluta goduria.
A far mente locale e a far scorrere la memoria, ho pensato che di derby ne ho vissuti in tutte le salse e in tutte le competizioni, da quel primo quasi in fasce: di campionato ma anche di Champions (e provo ancora i brividi al pensiero del ritorno della prima delle due sfide: un’emozione e sofferenza unica per le mie coronarie da allora mai più salde uguali, e il pianto finale di Cordoba era del tutto simile al mio), di Coppa Italia, in amichevole e financo in un Mundialito addirittura dall’interno campo, dietro la porta di Nuciari e aguzzando la vista giusto per vedere - ahimé - Serena con indosso la maglia sbagliata far partire al volo un siluro di destro buono per fissare un 2 a 1 per loro, risultato peraltro meritato. Per dire: alla fine dell’ultimo derby di cui sopra, ho chiesto a mia moglie di darmi un pizzicotto, ricavandone solo poi la fantastica certezza che non stavo vivendo soltanto un bel sogno. Invece ero sveglio, sveglissimo, e lo sono probabilmente fin dalla sera di quell’improbabile e traumatizzante 0 a 4 in compagnia di mio padre, sempre che non sia stato giocato - chissà - solo nella mia immaginazione di precocissimo bambino bardato di nerazzurro. Davvero, non avrei potuto esserlo di nessun altro colore, mai. T.M.