lunedì 16 gennaio 2012

Vita da derby, in nero e azzurro

Non vado nemmeno a cercare sugli annali anche perché non so bene che anno cercare, e poi i derby amichevoli magari neanche li mettono. So soltanto che ero piccolo, piccolissimo, e andavo con mio padre a vedere quello che sarebbe stato il primo incontro stracittadino della mia vita. Era la fine dell’estate - sono sicuro: faceva caldo anche se era sera fatta - e credo che agli occhi di un bambino di 4, 5 o 6 anni (stiamo quindi parlando più o meno di mezzo secolo fa!) niente poteva apparire più bello che lo spalancarsi di quel San Siro illuminato per la “notturna”: era proprio così che chiamavano la partita i grandi che mi tenevano per mano
già questo - per me - sapeva di trasgressivo e di molto adulto.
Ho pochissime immagini di quell’evento straordinario, e quasi non voglio nemmeno cercarne delle altre. Mi ricordo solo che ero in alto alto e in curva (per chi capisce di San Siro: quella che è adesso la preferita dai tifosi interisti) e che ero molto nervoso nell’attesa dell’ingresso delle squadre in campo, mi ricordo i cori e i colori e anche che il Milan vinse 4 a 0, che noi facemmo solo un tiro in porta e su punizione, che nell’Inter mi pare giocasse (ma non ne sono sicuro) un cileno che si chiamava Toro e che alla fine arrivammo faticosamente alla macchina (Fiat 850, color acqua marina, l’auto di famiglia appena comprata, rate infinite: da qualcuno devo aver pur preso.
Come conseguenza di quella prima uscita ufficiale da tifoso nerazzurro quasi ancora in fasce il mio papà mi asciugò le copiosissime lacrime e mi consolò dicendo: “Vedrai che il prossimo andrà meglio, vinceremo noi”. Invece non fu così e non lo fu proprio mai, in sua compagnia. Per capirci meglio: le stracittadine viste ancora da quella volta insieme non solo le perdemmo sempre - con 3, 2, 1 gol di scarto - ma non riuscimmo nemmeno mai a pareggiare, né a segnare un gol, nemmeno uno che fosse uno! Nonostante questo ruolino di marcia da accoppiata familiare assolutamente disastroso il genitore non aveva il coraggio di dirmi che forse era meglio, per scaramanzia, non si vedesse più un Inter-Milan (o viceversa) insieme, anche perché spiegare ad un bambino che cosa si intenda nel tirare in ballo la scaramanzia non è per niente facile e nemmeno educativo dal punto di vista delle certezze e dei fatalismi puri e semplici.
Ma a mio padre venne in soccorso la varicella, e anche questo fu episodio epocale. Era domenica 22 marzo 1964 (avevo quindi poco meno di nove anni), si disputava il derby di ritorno del campionato di quella stagione, e io mi ritrovai nel giro di poche ore pieno di pustole dalla testa ai piedi. In verità mi sembrava strano che il genitore non fosse dispiaciuto per la defezione imminente, ma pensai che prima o poi nella vita mi doveva succedere di saltare un Inter-Milan insieme: in fondo ne avevamo davanti - pensavo, ingenuo - molti altri per gli anni a venire.
Quel giorno, naturalmente, pur se a letto e ridotto ad uno straccio, avevo la radiolina incollata all’orecchio da molto prima del collegamento previsto; quando questo arrivò il transistor mi rimandò la notizia che il risultato era fermo sullo 0 a 0. Meno male, pensai: almeno stavolta non si perde. Invece, dopo un po’ dall’inizio della ripresa segnò Altafini per il Milan, e a me tornò il solito-malissimo-di-stomaco-da-sconfitta-di-derby, una roba che ormai avevo imparato a riconoscere, un dolore sordo che ti prende all’inizio piano poi diventa sempre più forte e alla fine si trasforma in spossatezza generale con nessuna annessa voglia di alzarsi dal letto, ad esempio (e soprattutto) per andare a scuola il giorno dopo. Del resto, con l’aggiunta di tutte le magagne e le insopportazioni dell’età adulta e dell’epopea nerazzurra nefasta (durata anni e anni, anche se forse ora definitivamente alle spalle), mi succede(rebbe) così anche oggi. Comunque, contro tutte le previsioni dovute alle esperienze fino a quel momento maturate, quella volta la palla non fece in tempo a tornare a centro campo che la prende Mariolino Corso, scarta almeno sei rossoneri e la deposita in fondo alla rete dopo aver scavalcato anche il portiere. La partita poi finisce, così, 1 a 1. Semplicemente, quando mio padre torna a casa mi dice: “Dopo un sacco di tempo non andiamo insieme al derby da anni e l’Inter riesce a fare un gol! E’ logico che da adesso ognuno va a San Siro per conto suo”. Inutile sarebbe confermare che quella sorta di macumba al contrario ha funzionato, perché è stato proprio andandoci senza di lui che ho cominciato a non veder perdere e basta la mia squadra: prima pareggi (anche a reti inviolate), poi magari anche qualche sconfitta ma anche tante, tantissime vittorie, alcune indimenticabili. Unica eccezione, buonissima per confermare la regola, accadrà l’8 novembre 1970, e mi è stato facile ritrovare il giorno esatto: la sera prima a Roma Benvenuti prese una prima tal suonata da Monzon, che il doppio evento negativo mi è rimasto ben fissato nella memoria. In quella data io e il genitore provammo a vedere se il sortilegio fosse mai caduto in prescrizione anche perché obbligati di nuovo a viaggiare in coppia per una stracittadina causa visita di un quasi-parente venuto da lontano al quale mica potevamo raccontargli della nostra disgrazia legata ai derby: in fondo eravamo pur sempre milanesi illuminati! Naturalmente finì come doveva finire, facendoci tornare immantinente alle sane reciproche distanze per l’occasione, convinti da un secco 3 a 0 per il Milan, anche con onta della rete finale segnata dall’odiato Rivera (prima Biasiolo e Villa), e noi costretti a giocare con improponibili scarponi del calibro (ahinoi!) di Cella e Fabbian: ricordo bene solo loro, gli altri li ho per fortuna rimossi. Unica consolazione, ma non ne sono sicuro: Lido Vieri che si infortuna quasi subito e conseguente debutto in porta di un giovanissimo Ivano Bordon che sembra palesarsi da subito portiere di ottima fattura, anche se motivi per ricredersi negli anni ce ne saranno a iosa. Per amore di storia nerazzurra va detto che la mia squadra dopo quella disfatta cambiò marcia, allenatore (arrivò un quasi sconosciuto Invernizzi, subito ribattezzato Robiola: ah, la creatività lombarda!), un onest’uomo di allenatore casareccio capace di ridisegnare in un niente la squadra, compilare una tabella-scudetto che farà epoca e proprio nel derby di ritorno (non mancherò certo l’appuntamento andandoci, of course, da solo) in solo mezz’ora ci penseranno Corso e Mazzola a stroncare velleità stracittadine e possibile tricolore di rincorsa (arrancavano dietro, ma neanche di tanto) degli insopportabilissimi cugini.
Riprendendo solo con i bei ricordi, nei derby degli anni a venire potrebbe anche valere per tutti un 5 a 1, con tre gol nei primi dieci minuti (ad essere precisi: nel periodo compreso fra il 5° e il 9° pt), e mi ricordo che in porta c’era Pizzaballa in sostituzione di Albertosi infortunato e che prima della partita aveva detto essere pur vero che da tanto tempo non giocava, ma avrebbe fatto di tutto per non far rimpiangere il portiere titolare. Gli arrivarono in sequenza, nel sacco, sberle da Oriali, Boninsegna due volte (la prima con deviazione di Sabadini), poi accorciò Chiarugi, alla fine del primo tempo allungò Mazzola e nella ripresa - giocata da noi come in allenamento, e impreziosita da tanti “olè” che facevano sembrare San Siro un catino da corrida - arrotondò Mariani. Dico tutto così, quasi a braccio, e non sono mica cazzate da ricordare (ho solo controllato la sequenza delle reti): son passati quasi quarant’anni, visto che era il marzo del ’74! Ufficialmente giocavamo in trasferta, e non dimenticherò mai la faccia del Flavio Belotti (milanista purosangue e campione niguardese assoluto di rutto libero) con me allo stadio, che dopo solo una manciata di minuti dal fischio d’inizio era rimasto senza parole e tale rimasto ostinatamente fino alla fine nonostante gli dessi continuamente di gomito; come unica consolazione, sulla via del ritorno, si prenderà la soddisfazione di vedere triturata dall’elica del suo vespone il mio bandierone nerazzurro nell’atto del mio sventolio reiterato, mentre attraversavamo il cavalcavia Bacula verso il ponte della Ghisolfa.
Delle tante altre stracittadine ricordo anche una volta - per la penuria di dané - l’ingresso a cancelli aperti, verso la fine della gara (in genere, a quello che adesso chiamano Meazza ma che per noi resta sempre e solo San Siro, il “tutti dentro”, ieri come oggi, avviene circa al 30° st), giusto in tempo per vedere uno storico gol di polpaccio di Bigon su respinta sfortunata di Burgnich che fissava il risultato sul 3 a 2 per il Milan (stiamo parlando del novembre ’71).
Arrivando a questo – calcisticamente parlando - splendido nuovo millennio ho avuto la ventura, fra le tante altre cose belle che mi ha riservato - come l’amore assoluto (a assolutamente ricambiato) per Cambiasso, la forte impressione (quasi certezza, invero) di essere almeno lontano parente di Xavier-mio-capitano, e la marcata sensazione che se avessi continuato a calcare i campi di gioco oltre i sedici anni senz’altro qualcosa più di Quaresma sarei riuscito a combinare - di regalarmi alcuni momenti epocali per la mia personale storia nerazzurra, e parlando sempre di derby mi piace citare quello legato ad un grande e unico allenatore come Mourinho, capacissimo creatore di una squadra di miei eroi pressoché perfetta, in grado (fra le altre cose) di infliggere ai facenti parte dell’altra sponda calcistica meneghina (tutti: squadra e tifosi) una doppietta esaltante nelle due gare della Madonnina disputatesi nell’anno di grazia calcistica 2009-10: addirittura un 4 a 0 “in trasferta” all’andata - una squadra sola in campo, e smetto qui per non infierire e dilungarmi inutilmente, che le parole non servono - e un 2 a 0 al ritorno dove, se anche le squadre in campo erano due, bisogna sottolineare che la mia amata compagine si presentava a ranghi ridotti già prima di incominciare la gara per poi rimanere quasi subito in dieci e, verso la fine, addirittura in nove. Anche con due espulsi e un rigore contro - parato! - abbiamo dato lezione di gioco e di compattezza tale da regalarmi sensazioni di assoluta goduria.
A far mente locale e a far scorrere la memoria, ho pensato che di derby ne ho vissuti in tutte le salse e in tutte le competizioni, da quel primo quasi in fasce: di campionato ma anche di Champions (e provo ancora i brividi al pensiero del ritorno della prima delle due sfide: un’emozione e sofferenza unica per le mie coronarie da allora mai più salde uguali, e il pianto finale di Cordoba era del tutto simile al mio), di Coppa Italia, in amichevole e financo in un Mundialito addirittura dall’interno campo, dietro la porta di Nuciari e aguzzando la vista giusto per vedere - ahimé - Serena con indosso la maglia sbagliata far partire al volo un siluro di destro buono per fissare un 2 a 1 per loro, risultato peraltro meritato. Per dire: alla fine dell’ultimo derby di cui sopra, ho chiesto a mia moglie di darmi un pizzicotto, ricavandone solo poi la fantastica certezza che non stavo vivendo soltanto un bel sogno. Invece ero sveglio, sveglissimo, e lo sono probabilmente fin dalla sera di quell’improbabile e traumatizzante 0 a 4 in compagnia di mio padre, sempre che non sia stato giocato - chissà - solo nella mia immaginazione di precocissimo bambino bardato di nerazzurro. Davvero, non avrei potuto esserlo di nessun altro colore, mai. T.M.

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