mercoledì 21 dicembre 2011

quelli come Beppe Viola


Per un Milan - Inter degli anni Settanta finito 0 a 0 senza un tiro in porta Beppe Viola, che doveva realizzare il servizio per la Domenica Sportiva, decise di mandare in onda le immagini di un derby del 1963 per rispetto dei settantamila di San Siro, incolpevoli vittime di quello che aveva definito un "derbycidio". Dei tanti episodi che narrano il suo "modo di stare in campo" questo mi sembra il più emblematico. Inventore di battute fulminanti ("il pugile torna all'angolo: come sto andando ? Se lo ammazzi fai pari" oppure "sopporterei 37 e 2 di febbre tutta la vita pur di avere la seconda palla di servizio di Mc Enroe"), gestore dell'Ufficio Facce, luogo incaricato a riconoscere il tifo dalla fisionomica (Lei è del Milan, vero ?), giornalista, sceneggiatore, scrittore di canzoni. Un eclettico naturale col bonus di una capacità di osservazione fuori dal comune e una leggerezza capace di trasmettere conoscenza e calore umano senza prendersi sul serio. Frequentatore assiduo di San Siro anche nel senso dell'ippodromo, dove poteva incontrare facce che scrivevano da sole. Un purosangue poteva presentarlo così: "quando il nome di un cavallo esce dall'ippodromo e diventa popolare vuol dire che il cavallo è proprio un grosso tipo". Insomma, un fuoriclasse. In una televisione popolata da giornalisti sportivi che riescono a chiamare "scarpini" le scarpe da pallone è bene ricordare la sua lezione. Che non ha tempo. C.S.


dal sito di Panorama - link: http://blog.panorama.it/libri/2011/11/29/quelli-come-beppe-viola/

lo stadio


Prato di insalata (russa), linee di caviale iraniano, a bordo-campo le magnum da 100 litri di uno champagne così buono che sembra un rosè, le porte d'oro (firmate da Manzù o da Michelangelo), l'arbitro vestito come Hitler così mantiene l'ordine in campo, il portiere bendato che para una damigiana... il paradosso verticale di una comicità stratosferica e lieve in uno sketch del 1974 che non ha tempo.
Allo stadio ci vado ogni tanto, da anni non ho più l'abbonamento al mio Milan, e non ho la "tessera del tifoso" perchè la mia religione lo vieta.
Quando ho portato per la prima volta i miei figli a San Siro ho dovuto consegnare in banca i loro documenti d'identità (avevano 8 e 6 anni), e ho firmato la "dichiarazione antimafia".
Non è un altro estratto dallo sketch di Cochi e Renato, è la verità. Il paradosso è un'arma intelligente per trascendere la realtà, ma può capitare che la realtà si vendichi fottendosene dell'intelligenza. Quella volta i bambini restarono quasi imprigionati nei "tornelli innovativi", che pesano come un tir norvegese carico di incudini, i poliziotti che ti accolgono dopo l'ingresso sono lì a spingere le pressofusioni in soccorso a donne, bambini, persone anziane. Provo a immaginare questo sketch con gli ingredienti di oggi, con quella libertà espressiva che nel vocabolario non annoverava parole come share, audience e rating. E rido, che fa bene al sistema nervoso, e piace molto alle donne. C.S.


Dal sito di Panorama - link: http://blog.panorama.it/libri/2011/11/15/lo-stadio/

Riletture: Gigi Garanzini - Nereo Rocco. La leggenda del Paròn continua.




1. Tuto quel che se movi su l'erba, daghe. Se xe la bala, pasiensa.
2. Vinca il migliore, Signor Rocco. "Ciò, speremo de no".
3. Primi anni sessanta, trasferta del Milan in Francia, un giornalista si rivolge al Paròn: "Monsieur Rocco, mon ami...". Risposta: "Mona a mi? Mona a ti e anca testa de gran casso".
4. Viene nominato Cavaliere della repubblica: "Ma no i ga altri mone de darghe premi, 'sti Italiani?"
Lo zibaldone orale di Nereo Rocco, il Paròn, è un'apoteosi della battuta schietta. 
Un grande personaggio e un grande uomo di calcio la cui memoria merita un libro bello come quello che gli ha dedicato Gigi Garanzini, La leggenda del Paròn. La prima edizione risale alla fine degli anni novanta, edita da Baldini & Castoldi. Due anni fa ne è uscita una aggiornata e arricchita di nuovi interventi che porta un titolo leggermente diverso: Nereo Rocco - la leggenda del paròn continua (Mondadori - Strade Blu).
Garanzini racconta Rocco con amore e stile, fiutando tra le radici della passione che ha rappresentato un porto franco per milioni di Italiani negli anni del post-dopoguerra e del boom economico. Dalle sue pagine la figura del Paròn si materializza in un corpo che trasmette i valori che già allora facevano a pugni con le nuove sirene della modernità: amicizia, convivialità, rispetto, sportività, umorismo, umiltà. Quelle cose che sono (dovrebbero) stare sempre al centro (o a centrocampo...) e che Nereo Rocco ha testimoniato senza un'oncia di retorica in una vita spesa a far correre il pallone sul prato. Garanzini ama la visione della vita che il Paròn incarna, e la racconta a più voci, senza sperperare nulla di quel tesoro che il grande triestino ha costruito nel tempo. Ogni episodio è il pretesto ideale per restituire al lettore l'origine di quella passione capace di sentire sport, saggezza e tradizione come un'unica bandiera, come un bel modo di stare al mondo. Da tenere sempre in parte al comodino. C.S.


dal sito di Panorama - link: http://blog.panorama.it/libri/2011/12/16/riletture%C2%A0gigi-garanzini-nereo-rocco-la-leggenda-del-paron-continua/

mercoledì 14 dicembre 2011

Quando il fuori-orario diventa un insulto. Alla maglia.




Sono d’accordo con Ranieri, quindi preferisco tralasciare ogni considerazione sul fatto che forse l’Inter – una volta di più – abbia finalmente “svoltato”. Ogni svolta, purtroppo, mi sembra ancora lontana dal venire, ed è quasi meglio ragionare sul fatto che i bei tempi andati, con una squadra messa così, non tornano più tanto presto. Facciamocene una ragione e guardiamo avanti, ma proprio per questo, per il bisogno di guardare avanti con costrutto, voglio riavvolgere il nastro delle imprese nerazzurre di qualche giorno fa, che può essere utile per tutti.
Infatti, dopo le partite con Udinese e CSKA non sapevo se essere infuriato, se mollare il colpo o vedere la cosa con ragionamento. La prima sensazione con l’andare delle ore mi è passata, la seconda non sia ma che un nerazzurro lo faccia, e allora mi rimane la terza. Quindi, vediamo di ragionare e mettere dei punti fermi, e uno di questi si riferisce a dopo la sconfitta con i friulani. Riportano le cronache che, a seguire quella prova inguardabile, due dei protagonisti più perversi di quella che non si dovrebbe nemmeno definire partita, Zarate e Alavarez, sono stati beccati in discoteca a ballare fino alle cinque del mattino. Sarà che a me dopo una partita persa nella vita, di qualsiasi partita si tratti, l’ultima cosa che mi viene da fare è andare a ballare, ma la cosa mi è sembrata surreale. Al massimo cado in momentanea depressione, voglio restare solo, e a farmi compagnia accetto solo un mio amico che si chiama Johnny Walker, che mi sorbisco in quantità assolutamente moderata e lui mi sopporta in paziente attesa di essere trangugiato; poi, via a letto, e (questo sì) domani è un altro giorno e si ricomincia. E, tanto per entrare ancor più nel merito: che cazzo ci sarà mai da festeggiare fin quasi al sopraggiungere dell’alba dopo una pena di un’ora e mezza più recupero di uno spettacolo simile? Del resto, i due ragasssi in questione non sono gli unici esempi del genere che abbiamo e abbiamo avuto in squadra. Non tendo mai a dare per scontate le voci che arrivano da più parti sui calciatori e la loro vita gaudente, ma siccome ormai alcuni spifferi sono cresciuti fino a diventare intense folate di bora, qualcuno mi sa spiegare come mai, da qualche tempo, quando si mormora di Maicon e Sneijder non lo si fa per narrare le loro gesta all’interno dei rettangoli di gioco, ma piuttosto quelle che riguardano l’elevato tasso alcoolico (quindi, non più tanto quello tecnico) che son bravi ad assorbire? Molte “vedette” non solo nerazzurre, infatti, pare ne abbiano potuto prendere atto con i loro occhi, in diversi trani di lusso del centro città e della periferia. Forse che questo spiega la “tenuta” fisica circoscritta ormai alla prima mezz’ora di gioco per entrambi, prima di sparire nel nulla del vacuo nerazzurro generale? Problemi fisici solo muscolari, i loro? Mah… Ho detto mezz’ora ma forse ho esagerato, visto che ormai le loro ultime apparizioni quasi non me le ricordo. Soprattutto quelle del Wes, al quale del resto ho già faticosamente perdonato (e l’ho fatto solo per amor di bandiera e patria calcistica) l’orrendo film del suo matrimonio nel senese solo pochi mesi fa e che le cronache impietose non ci hanno risparmiato, un vero e proprio trionfo di kitsch pacchiano con tanto di traino di cavalli bianchi e sposini assisi in carrozza, della serie: non facciamoci mancare niente, noi che adesso possiamo e mai avremmo potuto immaginare solo qualche anno fa.
Ho anche pensato che dev’essere l’aria di Appiano, forse troppo “pulita” in generale, e allora a qualcuno dei nostri campioni forse vien voglia di sporcarsela un po’ qua e là, come del resto appunto dimostra la storia nerazzurra passata e recente, zeppa di altre vittime illustri. Mi vengono in mente al volo - ed evito di scavare nella memoria alla ricerca di altri, sennò il mal di stomaco aumenta - Ronaldo, Vieri e Adriano, e i balli sfrenati e l’alcool a fiumi non erano nemmeno le uniche distrazioni, ché al peggio scontato non c’è mai fine soprattutto se a darne mostra son bambocci viziati ai quali non pare vero di poter combinare qualcosa che si avvicina all’armamentario squallido dell’arricchito medio e senza cervello.
Ma io mi domando: è tanto difficile passare qualche anno nella veste dell’atleta e basta, per poi scatenarsi e fare quello che si vuole appena appese le scarpe bullonate al chiodo? Vale la pena perdere milioni di euro (che le stupidaggini reiterate alla fin fine pesano sul rinnovo d’ingaggio) e vagonate d’ammirazione incondizionata da parte di schiere di tifosi adoranti per rovinarsi la vita, la reputazione e la forma fisica invece di aspettare a farlo quando poi non si deve rendere conto a nessuno, soprattutto ai compagni di squadra seri? Già, i compagni di squadra seri, tutta un’altra categoria. Mi viene in mente una serata di qualche anno fa, alla Comuna Baires di Milano. Ospite d’onore era Javier Zanetti, chiamato a rispondere alle domande del (folto, foltissimo) pubblico. Finito il bellissimo “balletto” (un tango immaginario e struggente, giusto ritmo per l’onore da rendere all’illustre ospite) di botte e risposte, si va tutti a cena insieme. Ricordo che il nostro capitano ha pasteggiato a pizza, insalata verde e acqua minerale naturale, poi alle dieci e un quarto ha guardato l’orologio, si è alzato e ha salutato perché il giorno dopo aveva l’allenamento: si è scusato, ma - testuale – doveva andarsene perché non poteva fare “più tardi di così”. I capelli erano sistemati come sempre li abbiamo visti sistemati sulla crapa solida di Zanetti, in nessun lembo scoperto del di lui corpo si intravedevano tracce bluastre di orrendi tatuaggi, il sorriso e la cortesia verso tutti gli astanti erano ben stampati su viso e sguardo luminosi. Quando è uscito il nostro Javier ha lasciato dietro di sé la sensazione che fosse passato qualcuno di etereo e nello stesso tempo di molto fisico, la stessa immagine che resterà nella memoria di tutti noi anche quando avrà smesso di giocare sfilandosi la fascia da capitano, un simbolo vivo e concreto che nessuno vorrebbe mai abbandonasse. Nella memoria di noi interisti tutti intendo, gli stessi ai quali un giorno qualcuno potrebbe chiedere chi mai erano Zarate e Alavarez, e magari non sapremo nemmeno bene cosa rispondere. O forse sì, e potrebbe suonare più o meno così: due giocatori discutibili mai del tutto realizzati, però nottambuli abituali che si sono persi nella nebbia in un periodo particolarmente buio per l’Inter. Poi, diranno le cronache del futuro, per fortuna è arrivata – davvero! - la “svolta”, e tutto ha ricominciato a girare per il verso giusto... T.M.


pubblicato il 14/12/2011 nel sito di Panorama - link:
http://blog.panorama.it/libri/2011/12/14/quando-il-fuori-orario-diventa-un-insulto-alla-maglia/

lunedì 5 dicembre 2011

Un caffè con Odoacre




Da qualche tempo, la mattina, mi capita di prendere il caffè al bar seduto ad un tavolino di distanza da Odoacre Chierico, ex giocatore della mia Inter e poi della Roma ormai di un bel po’ di anni fa. E quello è uno di quei momenti in cui, in maniera assolutamente inconsapevole, ridivento immediatamente bambino. Come quando facevo, appunto fin da piccolo, se mi capitava per strada di incontrare un calciatore e rimanevo a bocca aperta per tanto fortuna, mi guardava intorno per vedere se c’era qualcuno che mi conosceva e avesse poi potuto testimoniare - se ce ne fosse stato bisogno - che l’incontro era avvenuto davvero. E per un po’, solo per un po’, sembrava che la mia vita andasse viaggiando incrociata con qualche mito di quelli, magari solo il tempo necessario per qualche passo o per uno sguardo che sarebbe rimasto impresso solo a me.

Cose del genere – l’ho scritto anche nel libro – mi sono capitate quando all’oratorio di Niguarda venivano a tirare calci al pallone il lunedì (il loro giorno libero) Sandro Salvadore o Aquilino Bonfanti, cooptati da Don Gabriele perché facessero sentire a noi ragazzi quanto quello spazio, in quei tempi ormai andati, fosse ancora più insostituibile. Ma anche poi diventato io più grande la stessa sindrome da bambino basito dalla visione dei miti in maglietta e calzoncini (anche se per strada il vestiario loro era naturalmente “borghese”) è continuata. Mi ricordo una volta di essere rimasto con la brioche a mezza bocca vedendo entrare nel bar dove allora facevo colazione (era il mitico Matricola di viale Romagna, a Milano) Cesare Maldini con suo figlio Paolo, da poco diventato titolare fisso in prima squadra (più o meno venticinque anni fa, e comunque ero già ben grandicello), ancor più sorpreso del fatto che facessero colazione nello stesso modo mio (cappuccino e, appunto, brioche) tanto che per pochi attimi mi sono sentito atleta possibile, dimenticando che in quel periodo ero invece parecchio scosso dai danni provocati dalle almeno quaranta sigarette al dì che (allora) fumavo. O, qualche volta, il momento felice del dopopartita, fuori dai cancelli di San Siro quando si aspettava che i calciatori risalissero sul pullman e si chiedeva l’autografo indistinto: bastava che qualcuno-qualsiasi di loro lo facesse, che comunque andava benissimo. Il particolare più vivo che conservo di quei momenti era lo scoprire la tonalità dei capelli di quelli che si spingevano fino a noi per mettere uno scarabocchio su un foglietto di risulta: il castano non si coglieva nella tv in bianco e nero (e nemmeno il biondo accesissimo, se è per quello, e Haller con tanto di lentiggini fu una scoperta assoluta) e si aveva la sensazione di essere parte di una cerchia che aveva la fortuna ravvicinata e quasi esclusiva di aver scoperto il mondo del calcio a colori molto prima dell’avvento televisivo a tutte tinte. Per dire, la capigliatura marroncina tendente al chiaro di Sandro Mazzola fu una rivelazione sorprendente proprio di una di quelle domeniche pomeriggio, che riporto vivissima negli occhi ancora adesso.
Altre apparizioni sparse e indimenticabili negli anni furono quelle di Giacinto Facchetti (un passo imperiale, il suo) in via Durini a Milano poco tempo prima che si sapesse che era irrimediabilmente malato (a me sembrò, quel dì, invece l’uomo più sano della Terra). Ancora, Pietro Paolo Virdis, e per una ragione tutta particolare: anni fa eravamo seduti in due tavoli diversi nello stesso ristorante a Milano e solo poco settimane fa mi sembra di averlo incrociato sul metrò a Roma, ma forse era un sosia e in ogni caso quel “lui” – chiunque dei due fosse - era consapevole del mio sguardo fiso allucinato, visto che mi rispondeva a sua volta fissandomi, ma come se fossi scemo.
La stessa sorta di sindrome di Stendhal mi ha colpito, anche se sono un po’ riuscito a contenerla non dandola molto a vedere, per tutto il tempo che ho fatto il giornalista sportivo e mi sembrava di vivere in un luna park gratuito (i bambini adorano i luna park). Sono riuscito quindi a passare quasi una giornata intera con Maradona senza dar fuori di cotenna, ma comunque pizzicandomi ogni tanto per convincermi che non stavo sognando. Un’altra volta l’emozione era così tanta che ho bruciato con la brace della mia sigaretta - in sala stampa del Meazza (si poteva ancora fumare pure lì, e anche questo particolare testimonia del tempo assai passato) - un giubbotto a Beppe Bergomi facendo finta di niente, ché ripagarlo mi sarebbe costato almeno tre mesi di quella collaborazione (il quotidiano era Reporter) e spero che se mai leggerà ora di questo mio outing tenga conto che l’ormai eventuale reato (comunque colposo) dev’essere ormai caduto in prescrizione. Ricordo indelebile è anche quello mentalmente incamerato in occasione del giorno dell’inizio del ritiro estivo del Milan - c’è sempre quella squadraccia sul mio cammino, in un modo o nell’altro: dev’essere un karma da reincarnazione che devo scontare -  nel luglio del 1985, ultimo anno di Giussy Farina alla presidenza; entrai nell’ascensore in via Turati e subito dietro di me arrivarono Paolo Rossi e proprio Paolo Maldini (una sorta di passaggio delle consegne, fra di loro) che si conobbero praticamente lì, e credo si siano stretti la mano – la sensazione era quella - per la prima volta; nel breve tragitto rimasi schiacciato sul fondo del mezzo in salita per la consapevolezza della testimonianza epocale, anche se vissuta in solitudine. L’ultimo che qui cito è il momento delle confessioni tristi raccolte in un’intervista a Evaristo Beccalossi (per me, un mito irraggiungibile, e anche questo l’ho scritto più e più volte) quando se ne stava andando definitivamente dall’Inter: sforzavo di mantenermi professionale ma per quello che si andava perdendo in genio e gioia di veder giocare al pallone mi veniva da piangere, per lui, per me e per gli interisti tutti. Gli esempi potrebbero continuare a lungo, ma non farebbero altro che testimoniare della mia quasi ridicola condizione di infante mentale, ma sono sicuro che in molti mi capiscono, anche se poi forse farebbero fatica a confessare di soffrire dello stesso (assolutamente benigno, però) morbo.

Quando ho preso l’ultima volta il caffè vicino a Odoacre, solo qualche giorno fa, con me c’era mia moglie. Le ho detto, a bassa voce: “Lo vedi quello? E’ Odoacre Chierico! Ha giocato tre anni nell’Inter ed è stato anche titolare alla Roma nell’anno dello scudetto di Liedholm. Ti rendi conto?”. Lei ha guardato me, ha guardato lui, poi si è girata di nuovo e mi ha detto: “Va bene. E allora?”. Ho messo quasi il broncio, e mi sono zittito. Ai bambini, quando gli si rompe il giocattolo, la giornata poi finisce per girare tutta storta. T.M.

pubblicato il 30/11/2011 nel sito di Panorama - link:
http://blog.panorama.it/libri/2011/11/30/un-caffe-con-odoacre/#more-15869 

domenica 4 dicembre 2011

Genoa - Milan 0 - 2

La macaia affloscia le velleità del Grifone, che non entra mai in partita fatta eccezione per uno scorcio di ripresa, quando il Milan dà l'impressione di tocchettare per conservare il vantaggio. A chiudere il conto ci pensa il centravanti Nocerino, imbeccato da un prodigio tecnico-agonistico del Boa. Il centravanti Nocerino avrebbe potuto segnare già nel primo tempo su due lanci quasi identici di Ibrahimovic. Il Milan di quest'anno presenta (ormai è chiaro) un attacco in cui i centrocampisti vanno al tiro come gli attaccanti, che si alternano in posizione arretrata a suggerire. Un bel rompicapo per le difese avversarie, costrette a spostare i propri centrali in zone del campo pericolose. Con Pato lo schema risulta più difficile, la sua propensione a costruire gioco è quasi nulla, come la sagacia tattica. Per il Papero questo Milan sembrerebbe l'occasione migliore per fare quel salto di qualità che ci fa penare, io me lo auguro perchè un attaccante con quella velocità e quel fiuto del gol non esiste sul pianeta. Intanto Ibra pubblica un bestseller e inaugura una distilleria di calcio esoterico. Tevez - come dice il mio amis Gino Cervi - è una testina, ma in questo Milan può dare il colpo di grazia al campionato. Non è mica per fare l'originale, giurin giuretta, ma prima di lui vorrei rivedere in rossonero Merkel, col suo ingresso il Genoa ha improvvisamente trovato il senso della partita: l'anno scorso le poche volte che l'ho visto giocare nel Milan mi trasmetteva la medesima sensazione di confidenza nei propri mezzi, che sono cospicui e vanno molto d'accordo con i suoi diciannove anni. Siccome mi sembra di vedere i vagiti del grande giocatore, vorrei non rivederlo in rossonero tra quattro anni fiaccato dal girovagare. A Natale facciamo un regalo a Michel Le Roi e al suo fair-play finanziario, che è cosa buona e giusta, mi sa che ne guadagna il futuro della squadra. Cose dite, su Merkel mi sono sbilanciato ? Alegher, C.S.